Qualcos’altro indica dunque l’esistenza di una possibilità, quella della visione oltre la visione: i monocromi di Schifano, pur essendo stati concepiti senza alcun intento allusivo, catturano comunque lo sguardo dello spettatore e, come una finestra o un odierno diplay, spalancano le porte a mondi sconosciuti. Ci si aspetterebbe che da un momento all’altro qualcosa appaia da quelle superfici, ma basta attendere qualche istante per accorgersi di essere stati accontentati: il colore sembra attraversare una guerra interna per cui pian piano comincia ad abbandonare terreno – i segni di questa lotta sono distinguibili nelle pennellate che smettono di costituire intere campiture; la disputa intestina porta al “sanguinamento” di piccole colate che compaiono sulle tele, ma il vero prodotto viene di lì a poco partorito con le lettere o cifre che inziano ad emergere dal colore e che raggiungono piena configurazione in opere come Coca-Cola e No.
da “Mario Schifano, Qualcos’altro, Giò Marconi, Milano”, ATPdiary
Ogni personaggio si mette a nudo davanti ai suoi occhi e Sullivan fa lo stesso con noi, mostrandoci spaccati di vita privata. Come nella fotografia, predomina il gioco degli sguardi, con l’occhio dell’artista che si sostituisce a quello della macchina e l’occhio dello spettatore che prende il posto di quello dell’artista. In Muses, però, non vi è alcun intento di trasmettere impassibilità: ciò che traspare è il coinvolgimento dell’artista nel ritrarre le persone che gli sono più vicine, il sentimento che lo lega ad esse e che riaffiora ogni qual volta si tenti di ripescare i ricordi dalla memoria. È ciò che accade, in fondo, quando si sfoglia un album di famiglia.
da “Billy Sullivan, Muses, Kauffman Repetto, Milano”, ATPdiary
thecomfortshow costituisce così un’ulteriore opportunità per guardare al contemporaneo, e ai fatti che lo caratterizzano, damolteplici punti di vista. Rimanendo comodamente a casa, il format di ArTalkers e Art Bag – La busta d’artista con sorpresa consente di proiettarsi in uno spazio altro, annullando i confini della propria abitazione e mantenendo attiva la connessione con l’arte. In fondo è proprio questo il messaggio fondamentale che intende trasmettere il progetto: nella difficoltà della sua accettazione e gestione, il periodo di restrizioni ci ha tuttavia insegnato (forse) a sfruttare correttamente internet e il suo potenziale. Strumento ambiguo e spesso soggetto a numerose critiche, il web ha cominciato a incubare proposte e progetti originali e meritevoli di attenzione, amplificando la condivisione e lo scambio di idee e incrementando la crescita costruttiva della comunità digitale. Nel ventaglio delle differenti offerte, le iniziative sull’arte contemporanea sembrano finalmente occupare una posizione di rilievo, anche se ci si augura che tale spinta propulsiva continui la sua attività anche dopo questo periodo di restrizioni, soprattutto in tema di giovani.
da “TheNetShow: thecomfortshow, ArTalkers.it e Art Bag – La busta d’artista con sorpresa”, ATPdiary
Sessualità, gioco e, soprattutto, dualismo uomo-tecnologia: queste le componenti fondamentali del lavoro di Geumhyung Jeong, trattate con la stessa (a tratti controversa) autenticità che caratterizza i nostri tempi. Facendo un lungo passo indietro, Frankenstein di Mary Shelley e R. U. R. di Karel Čapek già mettevano in guardia sui possibili risvolti che si sarebbero potuti avere nel delicato equilibrio tra ciò che è umano è ciò che non lo è. “Accanto a sconvolgimenti politici e sociali, ci sono progressi scientifici che avrebbero profondamente cambiato la vita di tutti”: così recitava l’incipit di un film del 1994 basato sull’opera della Shelley. Upgrade in Progress, oltre a proseguire il discorso dell’artista, “aggiorna” la riflessione sui frutti che questi progressi hanno prodotto: un futuro che sembrava lontano è divenuto ormai presente, e quel che resta da fare non è altro che ragionare sui cambiamenti che ha comportato, sulla vita che viviamo e su tutto quello che ci circonda.
da “I ‘giocattoli’ di Geumhyung Jeong”, Juliet Art Magazine
Nessuno conosce questi uomini, eppure ognuno può vederci qualcosa di suo, sentirsi quell’operaio che va in fabbrica, quella coppia che si abbraccia mentre passeggia o la donna che si addormenta nei rumori del treno: scene di semplice routine che la volontà del fotografo e la forza della fotografia hanno trasformato in icone indimenticabili – ecco il motivo per cui Sebastião Salgado definisce Berengo Gardin “il fotografo dell’uomo”.
da “Gianni Berengo Gardin. Come in uno specchio”, Juliet Art Magazine